venerdì, maggio 08, 2009

Oltre ogni nota...io vorrei poter esser la.

Alla vigilia del concerto Di Napoli, parla dello «scandalo» di Umbria Jazz 2007
La provocazione di Jarrett :

«Liberate i pianisti classici»
Il jazzista americano:

la fedeltà allo spartito li porta alla pazzia
Jarrett

MILANO — Keith Jarrett il bambino prodigio che disse no a Nadia Boulan­ger, una delle più grandi insegnanti di musica del Novecento, che lo voleva co­me allievo. Keith Jarrett il pianista che da un quarantennio gira il mondo im­provvisando tra jazz, classica e blues, agitandosi, canticchiando la musica che sente nascere nella sua testa, liti­gando con il pubblico (celebri gli insul­ti lanciati dal palco di Umbria Jazz 2007, immortalati su YouTube, che pro­vocarono boicottaggi di molti fan). Kei­th Jarrett che pretende di avere delle stufe sul palco se l’aria condizionata è troppo potente. Keith Jarrett l’america­no di Allentown, Pennsylvania, 64 an­ni domani, che lunedì 18 maggio sarà per la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli, data unica, in quello che è già uno degli eventi musicali dell’an­no, ha fama di personaggio difficile, schivo, poco o nulla «mediatico».
Ma Jarrett ha parlato a lungo con il Corrie­re al telefono dalla sua casa-fattoria di Union, New Jersey, per spiegare che il pubblico scambia la sua concentrazio­ne per arroganza, che ascoltare i più grandi pianisti classici non lo stimola, che Herbie Hancock non capisce il pia­noforte, e molto altro. Jarrett parla co­me suona: non per frasi o paragrafi ma per lunghi movimenti, e non ama esse­re interrotto. Ecco dunque, senza inter­ruzioni, quello che ha detto al Corriere. «I pianisti classici non hanno uno sfogo per tutta quella musica che han­no dentro. E allora cercano di mettere qualcosa di personale dentro Mozart, o Beethoven, uno sforzo terribile. Io suo­no Bach o Händel alla lettera, la 'mia visione' non esiste. Ma quando improv­viso sono completamente libero. I più grandi pianisti del mondo tengono la loro immaginazione al guinzaglio per­ché hanno sempre davanti quello spar­tito. Allora io dico: liberateli. Il mio amico Vladimir Ashkenazy mi ha rac­contato che suo padre suonava il piano nei cinema ai tempi del muto: improv­visava sempre. 'Io non sarei capace', mi ha detto. Dovrebbe ritirarsi per me­si e entrare in una forma mentis com­pletamente diversa. Ecco perché i gran­di pianisti rischiano la schizofrenia. Lo stress produce un modo di suonare meccanico, la fedeltà è una trappola: io cerco di non essere fedele nemmeno a me stesso — il cervello è ingannatore, le dita gli dicono cose che, da solo, non immaginerebbe mai».
«Dicono che maltratto il pubblico ma non hanno capito che tocca a loro chiudere il cerchio disegnato da me: ho bisogno del pubblico al punto che in sala d’incisione mi manca. Suono la musica che nasce nella mia testa e se c’è troppo rumore, non parliamo dei flash dei videofonini, non riesco più a sentirla, quella musica. Il mio pubblico ideale è 'succoso'. Ha ragione Emma­nuel Ax, altro grande pianista classico, quando dice che il pubblico della clas­sica è troppo silenzioso. Sono più ordi­nati, ma non migliori del pubblico jazz. Non ho un pubblico ideale, ma in Giappone c’è rispetto e partecipazione sincera. Tre mesi fa a New York, alla Carnegie Hall, silenzio totale nei pianis­simo, fruscii e colpi di tosse e altri 'se­gni di vita' quando le dinamiche diven­tavano più intense, era come respirare all’unisono. Alla Scala nel ’95 fu un’al­tra bella serata: spero che a Napoli, nel teatro dove da Rossini in poi sono passati tutti i più grandi, potremo vivere tutti insieme un’altra notte da ricor­dare. Arriverò almeno tre giorni prima, come faccio sempre, perché non ho bisogno di prova­re ma di camminare per le strade, ascoltare i rumori. La musica di una città è nel­la sua aria: basta saperla ascoltare. Ecco perché la glo­balizzazione è così terribile: un solo mondo, una sola lin­gua? Una noia inimmaginabile. Un’altra cosa incredibilmente vacua so­no gli anniversari dei compositori, una fissazione della musica classica».

«Non si può capire Bach senza una conoscenza profonda del clavicemba­lo, ma l’evoluzione è nemica della pa­dronanza tecnica. Il pianoforte non è cambiato dal diciannovesimo secolo a oggi, e questo è un bene. Herbie Han­cock pensa che l’elettronica aiuti la mu­sica, ma il suo pianoforte elettrico non sarà mai paragonabile a uno Steinway, mai. Sostenere che il pianoforte è obso­leto è la negazione della mia visione della musica. Suonare è un atto estre­mo, voglio trascendere le possibilità fi­siche del mio piano, voglio che suoni come una voce umana, come una chi­tarra, come un uccellino. Per questo amo tanto la musica del vostro Ferruc­cio Busoni e soprattutto il secondo con­certo per pianoforte di Béla Bartók: per­ché chiedono al piano più di quanto possa fisicamente dare, quando finisci sei sudato come una bestia. Tento sem­pre di andare oltre. Le note mi arriva­no come un vapore sottile, come vapo­re acqueo. E io cerco di coglierne la for­ma prima che svaniscano nell’aria».


Matteo Persivale 07 maggio 2009 Corriere della Sera

1 commento:

Anonimo ha detto...

un po' fine a se stesso ???
Hancock non capirà il piano ma Cantaloupe Island avrei voluto scriverla io ...